Neutralizzare il dissenso: Le strategie di delegittimazione nei sistemi repressivi Un saggio sulle tecniche di patologizzazione del conflitto

I sistemi repressivi non temono la violenza: temono il pensiero critico. Non sono minacciati dal caos, ma dal dubbio. Ed è proprio per questo che il dissenso non viene affrontato frontalmente, bensì neutralizzato. Non con la forza, ma con la delegittimazione.

Chi contesta, chi insiste, chi non si rassegna – viene isolato, discreditato, svuotato di credibilità. Viene trasformato in problema. In soggetto irrazionale. In caso clinico. Questo saggio analizza i principali meccanismi con cui le istituzioni — anche quelle formalmente democratiche — spogliano il conflitto della sua legittimità, attraverso la patologizzazione, la ridicolizzazione e l’uso strumentale del diritto e del linguaggio amministrativo.

Il “Querelante Molesto” – L’etichetta giuridica per chi insiste troppo

Nel diritto amministrativo e civile italiano esiste una figura spesso evocata per zittire il cittadino che resiste: il “querelante molesto”, colui che abusa del diritto al ricorso o del diritto di parola.

Il confine tra legittima insistenza e accanimento patologico viene tracciato arbitrariamente. Il cittadino che presenta istanze multiple, ricorsi, segnalazioni — nonostante le negligenze dell’amministrazione — finisce per essere classificato come disturbato, ossessivo, problematico.

In alcuni casi, la macchina giudiziaria invoca persino la perizia psichiatrica per valutare la “capacità processuale”. Il contenuto della critica non viene più discusso. L’interlocutore è già stato squalificato come tale.

L’“Isterica” – Quando la rabbia femminile viene ridicolizzata

Nelle dinamiche di delegittimazione, il genere è un fattore determinante. Le donne che si ribellano, che si difendono, che protestano – vengono facilmente etichettate come “isteriche”, “emotive”, “squilibrate”.

Non è solo sessismo: è una strategia politica. La donna arrabbiata perde automaticamente la credibilità. Non è più un soggetto politico, ma un fenomeno da contenere. L’emotività diventa un difetto strutturale, un motivo per ignorare il contenuto e colpire la forma.

La “Paziente Psichiatrica” – Il manicomio come strumento politico

Quando le altre strategie falliscono, scatta l’ultima arma: la patologizzazione psichiatrica. L’individuo viene descritto come affetto da deliri di persecuzione, da fissazioni, da squilibri. Si costruisce un profilo clinico, spesso in assenza di diagnosi reali.

Nei casi più estremi, può essere disposta una TSO (trattamento sanitario obbligatorio), giustificata non da una minaccia oggettiva, ma da una devianza dal comportamento “normale”. La psichiatria non serve a curare – serve a zittire.

L’effetto è devastante: il dissenso viene trasformato in sintomo. La resistenza diventa malattia.

La “Complottista” – La nuova eresia laica

Nell’epoca del controllo narrativo, basta poco per essere etichettati come complottisti. Non serve negare la scienza: è sufficiente criticare l’autorità.

Il marchio di “complottismo” agisce come una scomunica laica: rompe il dialogo, chiude ogni possibilità di confronto, isola il dissidente in un limbo discorsivo.

Così, l’opposizione non viene mai affrontata sul piano del merito. Viene liquidata per principio. Il pensiero critico viene assimilato alla paranoia, l’analisi alla follia.

L’“Amministrato” – L’annientamento per via burocratica

Una delle tecniche più raffinate è quella della disattivazione burocratica. L’individuo non viene represso, ma ignorato. Le sue richieste vengono rinviate, archiviate, trasferite. Le risposte non arrivano, le responsabilità si dissolvono.

Il cittadino si trova intrappolato in una rete kafkiana: ogni tentativo di ottenere giustizia si trasforma in un percorso di frustrazione. Il sistema non dice mai di no – dice semplicemente niente.

L’autoritarismo della normalità

Il tratto più inquietante di queste dinamiche è la loro invisibilità. Non si tratta di colpi di stato o di censura esplicita. Si tratta di etichette, diagnosi, protocolli, rinvii.

La repressione non si manifesta con la forza: si esercita attraverso la marginalizzazione. Il dissenso non viene vietato – viene svuotato di significato.

In una società che pretende di essere democratica, tutto ciò accade nel silenzio generale. E proprio questo silenzio rappresenta la minaccia più grave: quando la critica non è più ascoltata, ma classificata. Quando chi si ribella non è più interlocutore, ma caso clinico.

Non c’è nulla di più autoritario di un sistema che dichiara patologico ogni tentativo di resistenza.