La vera grandezza di uno Stato di diritto si misura da come le sue istituzioni trattano i più deboli Una riflessione sullo stato di diritto in Italia, tra silenzi e resistenze

In un Paese, la forza non si misura dal numero delle leggi scritte, né dal rigore con cui vengono applicate contro chi le infrange. La forza vera – quella che distingue una democrazia da un’apparenza autoritaria – si rivela nel modo in cui lo Stato tratta chi è più debole, più esposto, più isolato.

Il principio è antico quanto la giustizia: la grandezza di una civiltà si giudica dal modo in cui tratta i suoi membri più fragili. Non è nelle aule del potere che si vede lo Stato di diritto, ma nei corridoi degli uffici giudiziari, nei verbali negati, nei silenzi istituzionali.

Oggi, ciò che accade nei tribunali di provincia – come documentato in questo magazine – solleva interrogativi inquietanti:

  • Cosa resta dello Stato di diritto, se l’accesso agli atti viene ostacolato non solo da un giudice, ma anche da un carabiniere armato all’ingresso?
  • Cosa resta della democrazia, se i cittadini vengono allontanati dal diritto con un’alzata di spalle, o peggio, con uno sguardo freddo e intimidatorio?
  • Cosa resta della Costituzione, se le istanze vengono ignorate non per carenza di fondamento, ma per fastidio?

In questi mesi, una giornalista tedesca – priva di tutela diplomatica, priva di potere politico – ha documentato il volto minore della giustizia italiana. Lo ha fatto con rispetto, rigore e senza mai piegarsi. Lo Stato, però, non ha risposto con trasparenza, ma con chiusura, con resistenze, con manovre silenziose.

La domanda allora è una sola:
Qual è la vera misura della Repubblica italiana, oggi?

Se la risposta sta nei gesti quotidiani delle sue istituzioni – allora siamo davanti a un problema strutturale. E chi lo denuncia, non attacca lo Stato: lo difende dai suoi automatismi più pericolosi.

Non è un atto di ribellione.
È un atto di cittadinanza.
È giornalismo come presidio costituzionale.